Le aspettative che avevo in un punto di riferimento, come con un fratello maggiore, per me erano andate a farsi benedire da anni, con uno scenico litigio. Le aspettative che un fratello minore, seppur putativo come mio cugino, poteva nutrire nei miei riguardi stavano facendo ora la medesima fine. Mi sembrava una sorta di catena che ripete se stessa senza mai comprendersi, senza mai migliorarsi, fagocitandosi ad ogni sua ripetizione. In quella situazione, durante tutto il viaggio, vestivo i panni di mio fratello, me li sentivo addosso: scostante e incazzato, ero infastidito dal dover essere lì, eppure non avevo fatto niente per evitarlo. Avevo, anzi, accettato la richiesta di aiuto, non mi ero tirato indietro, eppure lo avevo fatto con uno stato d’animo contrario. Lo avrei ammazzato in un modo diverso ad ogni chilometro percorso e non stavo facendo nulla per nasconderlo. Questo era il modus operandi di mio fratello, lo conoscevo bene: ti aiuto senza volerlo. Ti soccorro e, mentre ti salvo da morte certa, ti ricordo quanto sia un peso per me la tua vita e quanto tu sia un coglione nato male. Ti odio e per questo ti salvo, affinché tu possa vivere tutta la vita consapevole del mio odio per te. Psicopatia pura.
Forse si trattava di una malattia mentale trasmissibile in famiglia, non so. Forse tutti i nostri antenati ne avevano sofferto e la scienza moderna non aveva ancora scoperto nulla al riguardo. Magari mille generazioni nel futuro avrebbero riconosciuto questo comportamento di merda come qualche schifezza da inserire in una versione avanzata del DSM.
A differenza del giorno precedente, procedemmo con una pioggia costante che batteva contro il parabrezza. Un picchiettio che copriva ogni canzone trasmessa da una radio messa lì tanto per. Un ronzio di fuori che copriva il ronzio di dentro. Sembrava di viaggiare nel culo di una vespa.
“Spiegami una cosa -iniziai io, stavolta con tono pacato, leggero- perché in questo modo? Non mi chiedo il perché di questo viaggio, quello che mi domando è il perché tu abbia deciso di farlo in questo modo. Voglio dire: non mi ha stupito più di tanto il fatto che tu mi abbia chiesto di accompagnarti, ma davvero non riesco a capire il motivo per cui mi hai quasi supplicato di non dire nulla a mia moglie e a nessun altro. Cosa diamine c’è di male?”
Il sorrisetto sotto i baffi, che da sempre sembrava contraddistinguere il suo viso non c’era mentre, quasi sottovoce, mi rispose: “Sai quante volte ho provato a coinvolgere gli altri, amici o parenti, nelle mie idee, nei miei progetti? Sai quante volte la gente dice di no solo perché a proporre qualcosa di serio sono io? Un fallito ubriacone è sempre destinato a fallire, a quanto pare. Le persone, soprattutto quelle più vicine, non mi hanno mai appoggiato, chicco mio, non mi hanno mai preso sul serio. E quando le persone non mi prendono sul serio…beh…passa la voglia anche a me di prendermi sul serio. Mi passa la voglia di mettermi in gioco. È così da sempre. Penso di fare questa cosa da tanto tempo e per tanto tempo non sono stato sicuro se farla fosse o meno la cosa migliore. Secondo te cosa sarebbe accaduto nella mia testa se qualcuno avesse cominciato a dirmi che si trattava di un’idea di merda? Eh chicco mio? Cosa sarebbe successo se, come è sempre successo, qualcuno avesse cominciato a dire la sua senza sapere cosa avessi in mente io? Senza sapere quanto mi costasse anche solo proporla la mia idea?”
Rimasi a guardarlo senza dire nulla. Tra di noi i tergicristalli rimbalzavano come palle da tennis tra due giocatori seduti in panchina.
“Tua moglie non c’entra niente eh, per carità. Ma per me era fondamentale che nessuno di coloro che mi circondano lo sapesse e si prendesse a briga di dire la propria. Dirlo a pochi poteva significare farlo sapere a tutti gli altri. E se fosse successo, se lo avessero saputo, avrei mollato. Mi conosco. Non sono come te…io non continuo per la mia strada perché sono sicuro sia la scelta giusta e non la cambio solo in base alle mie considerazioni.”
“Come sei allora?” chiesi, sapendo la risposta.
“Io ho un casino in testa, ce l’ho sempre avuto. Non penso al domani, io penso al massimo alla prossima ora. Anzi, per me questo è già tanto. Nessuno mi ha insegnato un cazzo e ora non so cosa diamine insegnare ai miei figli. Però ti dico una cosa: questo viaggio l’ho pensato io, è una mia idea, era un mio desiderio e non me ne frega nulla del parere altrui, ok? Non me ne frega nulla, ma sono troppo debole per fregarmene fino in fondo. Sono troppo debole per accettare l’opinione altrui e tirare avanti. Quindi ho bisogno che nessuno mi dica nulla al riguardo. Sapevo che ti saresti incazzato, ma sapevo anche che avresti avuto da ridire per i modi, non per il viaggio in sé.”
“Ok, ho capito.” dissi tornando a guardare la strada dritta davanti a noi. Era questo, dunque. Decidere da solo dopo una vita di decisioni di merda. Decidere da solo e non lasciare che la propria insicurezza lasciasse spazio alle parole altrui, interferendo con la decisione presa. Non dirlo a nessuno per paura del giudizio degli altri. “Gli altri” erano proprio gli amici, i parenti e le donne che in tutti quegli anni lo avevano circondato, lo avevano consigliato, deriso, sottovalutato. Eppure io non rientravo in questo ragionamento, io ero un outsider. Io, per lui, ero probabilmente il fratello che non lo riempiva di belle parole, di consigli moralisti sul da farsi o su come condurre la vita. Quella merda l’avevo sempre messa da parte. L’avevo preso a calci nel culo, letteralmente, quando c’era da portarlo in comunità per ripulirsi dalla droga, e avevo accettato la sua richiesta quando tre giorni prima mi aveva chiesto di accompagnarlo a mille chilometri di distanza…perché ne aveva bisogno, perché era quello che avrebbe dovuto fare già tempo addietro e che ora, per lui, era diventato prioritario con due figli nella vita e un mucchio di casini di traverso. Ora il sorrisetto sotto i baffi ce l’avevo io.
“E dimmi un po’: cosa le dirai quando la vedrai?”
Lui sembrava riflettere sulla domanda. Poi lentamente e scandendo le parole una ad una: “Le chiederò semplicemente il perché se ne è andata. Le chiederò se in questi anni non si è vergognata di avermi abbandonato, di non avermi visto crescere, di non avermi aiutato ad uscire dai guai quando ne avevo bisogno. Le chiederò se sa che è diventata nonna e poi le sbatterò in faccia le foto di quando ero ragazzino, le foto che hai portato tu, quelle che hai preso dall’album di famiglia. ‘Sto gesto me lo sogno da anni. Poi prenderò e me ne andrò. Non voglio nemmeno sentire quello che ha da dirmi.” Mentre ai lati della strada gli alberi verdi ci circondavano in una macchia ombrosa e umida di pioggia, mise con un gesto nervoso la freccia, imboccando l’uscita. Sul braccio risplendeva d’un nero acceso la scritta scomposta che il giorno prima avevo letto fugacemente “Why, Mother?!”, come a sottolineare il discorso appena concluso, come se si stesse portando dietro, da chilometri, anche quel tatuaggio da mostrare a quella donna che anni prima lo aveva abbandonato. Un’altra foto, stampata sulla pelle, da lanciargli in faccia in un gesto plateale, da uomo duro e adulto.
“Insomma, vuoi farla sentire male e lasciarla lì. Vuoi abbandonarla come lei ti ha abbandonato anni fa. Giusto?” chiesi con un tono piatto.
“Giusto” rispose lui, guardandomi da sotto quegli occhiali tondi che non si era tolto quasi mai durante tutto il viaggio.
Le file degli alberi ci accompagnavano al di là del casello, ai bordi delle strade strette ma ben asfaltate. Punte verdi che fendevano l’umidità e che sembravano fare un picchetto d’onore al nostro arrivo in terra straniera. Il navigatore segnalava venti minuti rimanenti e solo in quel momento, alla distanza di una trentina di chilometri, mi domandai come avesse fatto a trovare l’indirizzo. Facebook? Probabile. Iniziammo uno slalom di curve, shakerandoci come liquido infiammabile, lentamente, sterzata di volante dopo sterzata di volante. Destra e sale la tensione. Sinistra e sale la tensione. Le dita che tramburellavano sul volante e il silenzio che non diminuiva, né si interrompeva. E il regalo più bello che potessi fargli, in quel momento, era proprio il silenzio. Lo stesso silenzio che per tutto il viaggio aveva assunto il sapore di un rancoroso antagonismo ora aveva tutta l’aria dell’accondiscendenza, della partecipazione a quella sua idea che non voleva condividere con altri, se non con me. Il mio silenzio era il mio appoggio, senza sé e senza ma. Guidava lui, in tutti i sensi. Io ero solo il passeggero di un attimo importante del suo vissuto.
Quando il motore si spense il cielo aveva smesso di piovere. L’acqua in terra ovunque con piccole pozzanghere rifletteva il grigio pieno d’umidità che si stagliava a macchia tra le punte degli alberi. Il paesino era modesto, con case dalle vecchissime murature, verdi cortili anteriori e sguardi curiosi di rugosi signori. La strada principale tagliava a metà due agglomerati di costruzioni, un bar nel punto centrale aveva l’insegna sbiadita e anziani con le polo dai colori pastelli sedevano ai tavolini d’alluminio circolari stringendo le mani attorno a bicchieri da osteria, vino bianco e sigarette. Lo sguardo si incollava sulla fiancata della ford, infilandosi oltre i finestrini. Ci fermammo davanti l’ultima casa della via. Spento il motore, restammo qualche minuto fermi con gli occhi fissi sul portone di legno come se ci fosse ancora qualcosa da decidere, a centinaia di chilometri da casa, ore e ore per poi prendere un’ultima determinante decisione. Il nostro riflettere venne interrotto dallo scatto della serratura, dall’aprirsi del portone: una signora dai capelli biondi, ricci e sfibrati, fece capolino facendosi anticipare da una pesante busta di scarti alimentari. Il viso era sempre lo stesso, nonostante qualche ruga avesse già preso piede attorno agli occhi e alla bocca. Sembrava come se mia zia, la stessa delle vecchie foto che avevo dato al mio compagno di viaggio, fosse stata rinchiusa in una sorta di matrioska, identica a se stessa eppure diversa, con dei chili in più, con i lineamenti stanchi. Alzando il capo rimase a guardare la macchina parcheggiata proprio davanti al cancello d’ingresso, l’espressione torva cercando di capire chi vi fosse oltre i vetri. Uscimmo dalla macchina all’unisono, come briganti per un agguato, ma io rimasi sul posto, appoggiato alla fiancata dell’automobile, con le braccia incrociate. Mio cugino avanzò lentamente, stringendo le vecchie fotografie nella mano destra: colori sbiaditi con risate di bimbi, capelli soffici e due corpicini che spuntavano da una vasca di plastica blu, piena d’acqua e sapone, poggiata su di un tavolo in una vecchia cucina. La mano che le stringeva tremava un poco. Fermi uno davanti l’altro si confrontavano in uno sguardo indagatore: quello di mia zia colpito nel profondo dalla sorpresa e dal dolore, quello di mio cugino imperscrutabile al di là degli occhiali da sole, tondi e saldi sul naso. Gli stessi ricci biondi al vento, che con un paio di folate preannunciava di riprendere a piovere, il figlio più alto della madre. Sembrava un regolamento dei conti e tutti e tre sembravamo attendere la prima mossa di qualcuno. Io ero lo spettatore esterno; mia zia aspettava di sapere cosa le avrebbe detto quel figlio diventato uomo e che non vedeva da troppi anni; mio cugino sembrava caricare una molla interna, una molta sufficientemente lunga e attorcigliata per poter sparare tutte le parole accumulate fino a quel momento. La mano con le vecchie fotografie si alzò incerta allungando le vecchie immagini alla donna. Poi la molla scattò: il labbro inferiore di mio cugino iniziò a muoversi incerto, a tremare, e mentre anche le spalle sussultavano come prese da una scossa iniziò ad articolare la parola “Perché” fermandosi come un balbuziente giusto al suo inizio.
“Why, Mother?!” sembrava aver occupato il suo intero braccio, lucido d’un nero inchiostro, sembrava essere stato tatuato per quello specifico momento.
Non riuscì a chiederle alcunché, ma togliendosi gli occhiali le mostrò gli occhi pieni di lacrime, come un bambino che corre dalla mamma dopo essersi sbucciato un ginocchio o dopo aver subito un torto. Si strinsero, si abbracciarono a lungo piangendo e articolando entrambi sottili parole sottovoce, che non sentii. Roba tra madre e figlio, pensai. Roba da adulti, per davvero. In terra le vecchie foto che sarebbero servite come arma da vendetta, ora erano sparse tutte attorno, come una decorazione di tanti colori. Occhi felici, felpe dai colori improbabili, un vecchio Natale trascorso tutti assieme, parenti scomparsi.
Presi il telefono e, mentre osservavo quei due, abbracciati, dirigersi verso l’interno della casa, chiamai mia moglie. Le avrei detto che stavo bene, che sarei tornato in nottata o, al limite, la mattina successiva, le avrei detto che mio cugino stava bene, no nessuna mattata; le avrei raccontato di come questo viaggio fosse servito a lui per ritrovare, finalmente, una madre debole e in fuga dagli affetti, per ritrovare una parte della sua vita lasciata in sospeso e, soprattutto, per trovare quella parte di sé che più gli sarebbe servita in futuro, non solo come figlio ma, probabilmente, come padre. Le avrei detto come il viaggio, sotto sotto, era servito anche a me. Io che non sapevo come fare il fratello maggiore, non essendolo dopotutto, sentivo di aver spezzato invece la catena, di aver rotto la sequenza ripetitiva di supponenza e giudizio, iniziata da altri e che rischiava di inglobarmi. Sentivo di aver fatto il mio, restando al mio posto, eppure per questo di aver guadagnato un pezzo in più, proprio quello che stavo per fare andar via.
Quando mia moglie rispose, col suo tono di voce che significava per me “casa” notai sul viso di mio cugino le prime rughe di espressione.