Ritmi, ritmi circadiani, mensili e annuali. Un continuo fluire e tornare tra pasticci e iconici drammi da risolvere in una minestra che fluisce via, per non finire mai. Ed ecco una nuova stagione che s’affaccia, un nuovo ottobre che avanza e, sinceramente, non riesco a togliermi di dosso le sensazioni da scolaro timido e imbarazzato, da tipo alto ma non troppo, sbarbato ma non troppo, magro ma non troppo, brufoloso. Troppo brufoloso. Sensazioni negative all’epoca, ma dannatamente rimpiante ora. Ora che i lampioni mi scorrono di lato, mentre cammino frettolosamente cercando di non perdere il treno, dopo un turno di lavoro noioso e stancante, dopo una giornata disillusamente scivolata via. Eccomi là, alto ma non troppo, magro ma non troppo, barbuto e senza brufoli (e per fortuna) che mi stringo nella mia giacca di pelle marrone e che, passo dopo passo, cerco di rispondere a domande esistenziali e non procrastinabili, del tipo: ma come facevano vent’anni fa a non perdere un treno? No perché ora con app che ti dicono quando il treno partirà, quando è partito e perfino quando è stato pulito, beh a me capita comunque di perdere qualche treno. Mi stringo al mio telefono in modo quasi romantico mentre controllo i minuti, i secondi e il binario.
Ho ancora dieci minuti, ce la posso fare.
Penso spesso a come la mia vita sia legata a doppio filo, a doppio gradimento, a questi stracazzo di treni. Si, beh, da studente facevo una doverosa spola tra l’hinterland e la città con lunghi e interminabili viaggi dei quali potrei raccontare avventure, disavventure e memorabili dormite. Viaggi che mi edificavano nello spirito, con studi, messe alla prova e fantasticherie, tanto quanto mi stancavano nel corpo con corse spinte e cazzotti. Eh già, benvenuti a casa mia. Eppure quando ripenso a tutte le esperienze passate da giovane pendolare una su tutte entra sempre, di prepotenza, nella mia mente: la prima. Di ritorno da un’eccitante gita nella città io e i miei amici, in goliardica avanscoperta tra i vagoni del treno, trovammo in una carrozza, lì proprio tra i sedili, una perfetta e quasi architettonica struttura piramidale di merda umana. Si, stronzi umani nel mezzo del treno. Non capivo e, in parte ancora oggi non capisco, come fosse possibile cagare nel bel mezzo del treno, ma tant’è.
Cinque minuti, due salite e tre rampe di scale. Sicuro ce la faccio.
Da adulto, poi, ho trovato che la strada più “comoda”, anzi più praticabile, per tornare da lavoro fosse proprio un treno metropolitano, piccolo, bianco e blu. Anonimo. Diverso da quello che mi ha trasportato per tanti anni dalla casa dei miei genitori fino all’età adulta, eppure era ugualmente, inequivocabilmente, anonimo. Un piccolo treno moderno ma invecchiato prematuramente, mai puntuale ma, per fortuna, senza stronzi umani ad accoglierti. Le saracinesche attorno a me chiudono, con proprietari stanchi che le accompagnano con i piedi, dentro scarpe che non si fanno problemi a mostrare tutto il duro lavoro della giornata. E io non so davvero perché mi sento come un giovane ragazzo alle prese con le prime interrogazioni dell’anno, alle prese con l’incertezza dei mesi autunnali alle porte, nonostante qualche capello bianco inizi a darmi un tono che, vi giuro, non ho davvero cercato.
Il binario è quello giusto, quindi faccio uno scatto sugli ultimi tre gradini ma, su in cima, le carrozze del treno mi sfrecciano vicino lasciandomi solo, con i vestiti mossi dal vento, accanto ad una panchina di ferro con qualche posto vuoto ed un signore tutto grigio seduto e rattrappito.
Mostro un dito medio per ogni mano e mugulo dalla frustrazione. Sbuffo e mi siedo accanto al signore tutto grigio.
Ci guardiamo, lui ed io, ed aspettiamo il successivo, anonimo, treno.