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La sopravvivenza è una questione di razza, dicono, una questione di specie insita nei meandri del nostro essere. La sopravvivenza ci caratterizza, giurano, in quanto individui con un’eredità di milioni di anni. Ma io penso alla salsa guacamole, e non riesco a fare altro.

Una giornata che si divincola tra l’alba e l’ora di pranzo, tra le ore più calde e il lento ambrare del tramonto in un oscillare monotono, così pieno di trambusto da sembrare silenzioso. Ecco. Guacamole. Stasera la schiaccio per bene, spremo con acida indisponenza il limone come se tutta quella poltiglia fossero le emozioni ricavate da una vita al risparmio. Tutte quelle emozioni che la giornata non ha provveduto a dare. Che dico dare: non le ha nemmeno lasciate intravedere. Ma ora sono in preda ad un oscillare di teste imbambolate, che mi conduce fino all’uscita della metropolitana, dove il colore dominante è quello dello sporco e dove il suono caratterizzante è quello del brusio, indistinto e impersonale. Sbuco, io, come in un rilascio immotivato e d’improvviso la scintilla: un cantante, disgraziato e poco dotato, muove le sue dita sulla chitarra acustica e vibra le sue corde vocali su note vecchie più della mia vita. L’unica emozione della giornata sembra risvegliare tutti lì attorno e, invece, risveglia solo me. Solo me con lo schioccare delle dita. Ma è un tripudio di colori, tra maglioni, giacche e ciuffi, tra sguardi, poster e luci. Fuori, all’aperto, il tramonto si incornicia con volo di uccelli orribili ma che da lontano rispettano anche loro i canoni di bellezza dei paesaggi.

Quasi vorrei tornare indietro per ringraziare quel musicista brutto e disgraziato per l’unica emozione della giornata ma non ne ho il coraggio, non ho il tempo e, soprattutto, non ne ho la voglia. Dentro di me ancora canto il ritornello con un sorriso compiaciuto sulle labbra.

Sarà una grandiosa Guacamole.