Quello che mi piace dell’autunno è l’imprevedibilità. Un momento prima hai talmente tanto freddo da pensare “ma perché diavolo non ho messo cappotto e sciarpa” e subito dopo il tuo corpo piomba in uno stato di dissoluzione salina sotto i colpi di un sole maledettamente estivo. Beh, l’imprevidibilità non risiede esattamente in questo passaggio, piuttosto in quel momento che accompagna una folata di vento o una camminata veloce sotto l’ombra, momento in cui un brivido ti investe, ti increspa e solletica la pelle. Ti colpisce tutto, ti infreddolisce tutto e la reazione dell’organismo è sempre chiara, decisa e sicura: i capezzoli si inturgidiscono. Anche se nelle donnine questa cosa è, spesso, legata ad immagine più o meno esplicite di eccitazione e bellezza, beh tra gli irsuti petti maschili la scena non guadagna certo di sensuale magnetismo. Reazioni corporee, direte voi; sicuramente, eppure ricordo come tanti, ma tanti, anni fa, quando ancora il petto villoso era per me un classe di pettorale sconosciuta, i capezzoli erano una parte del corpo inesistente. Non che non ne avessi eh, non sono un mutante, ma non badavo minimamente a loro. Esploravo il mio corpo allo specchio cercando di capire come stesse divenendo, come sarebbe stato e, giustamente magari, non mi ponevo il problema dei miei piccoli e anonimi capezzoli.
Saranno stati venticinque anni fa, un mese afoso ed estivo da vivere appieno e con energia al campeggio assieme ai miei genitori ed io mi annoiavo assumendo varie e variegate pose apatiche sperando che quell’estate finisse presto. Poi, mentre occupavo il mio tempo lasciandolo trascorrere senza gloria, conobbi un coetaneo, un altrettanto annoiato amichetto col quale condividere quei momenti di irrecuperabile spensieratezza. Ricordo come le prime volte ci vedemmo la sera, dopo il mare, quando ti fai bello con maglietta e pantaloni corti per la “vita” e la “movida” del campeggio. Un tipo normale, un tipo che sulla carta d’identità, da lì a qualche anno, avrebbe trova scritto “segni particolari: NESSUNO”. Tuttavia un giorno ci incontrammo in spiaggia all’ora di pranzo e decidemmo di risalire assieme e fermarci al piccolo bar locale che offriva qualche videogame cabinato con i titoli del momento. Troneggiava su tutti “International Superstar Soccer” in versione Snes ma dal look rifatto. Ci fiondammo estasiati inserendo manciate di 500 lire puntando direttamente alla conquista della coppa del mondo con l’Italia. Un partita estenuante, tra scivolate, colpi di testa e lanci improbabili e noi due eravamo in finale e senza più “gettoni”. Potevamo farcela, a vincere, ma le cose si misero subito male. Metà squadra si era ammollata, sembrava distratta; la metà di squadra controllata dal sottoscritto. Proprio mentre eravamo sulla cresta dell’onda, mentre eravamo eccitatissimi per il risultato ottenuto (la finale!) mi accorsi del…suo segno particolare. I suoi capezzoli. Giuro che aveva dei capezzoli a cui nemmeno Frankestein sarebbe rimasto indifferente. Degli scuri e turgidi capezzoli della lunghezza di almeno due falangi delle dita della mano, facevano costantemente capolino nel mio campo visivo. Distraendomi. Disgustandomi. In tanti anni, sinceramente non ho mai più rivisto dei capezzoli del genere e, sinceramente, non ci tengo nemmeno.
Quello che mi dispiace di tutta questa storia è il fatto che la mia memoria sia rimasta sconvolta da tutto ciò e, come nei traumi, abbia rimosso molte cose. Ad esempio non ricordo cosa accadde dopo quel giorno, come sia continuata o terminata la nostra conoscenza o se l’abbia mai più rivisto nelle estati successive.
Poi non ricordo come sia finita quella leggendaria finale ai campionati del mondo.
Ma soprattutto, tutte le volte che vedo un capezzolo o che sento i miei inturgidirsi al fresco improvviso dell’autunno, torno con la mente a quel pomeriggio afoso di tanti anni fa e al disgustoso oscillare di quelle escrescenze, chiedendomi se oggi, da uomo adulto, possa vantare sul proprio documento la scritta “segni particolari: CAPEZZOLI”.