Quello che più adoro di questo mondo complicato sono le impressioni. Quelle sottilissime linee di demarcazione tra una non conoscenza ed una conoscenza a tutto tondo. Tra l’una e l’altra, infatti, ci passa un fiume in piena fatto di impressioni e preconcetti in grado di guidare e alterare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone. Molto più efficacemente delle conoscenze stesse. E il bello è che si tratta di qualcosa di più forte di noi, alla quale non possiamo sottrarci in alcun modo.
Come potevo io sottrarmi a dei solidissimi preconcetti quando, una quindicina di anni fa, mi ritrovai per quelle strade sporche, poco illuminate e col fumo che usciva dai tombini? Come potevo sottrarmi a quelle impressioni mentre, entrando nel locale in fondo alla strada, lo attraversavo, a passo molto lento, superando tavoli occupati da energumeni semiaddormentati e ubriachi e accolto, in fondo al bancone da una puttana con le tette quasi del tutto di fuori, la faccia dipinta da uno stucchevole arcobaleno e lo sguardo acceso di uno spento languore?
Come potevo non sudare freddo?
Il problema di quella storia erano le aspettative. Si perché in Grecia, nel centro di Atene, tra gli esercizi commerciali e sotto un sole limpido credi praticamente in modo cieco al depliant che parla dell’Hard Rock Cafè della capitale greca. Dai per buona l’illustrazione così come la descrizione di uno dei luoghi più famosi al mondo. Sotto al sole sembra, a te e ai tuoi giovani amici, un’ottima idea. Tanto ottima da lasciarsi trascinare da ormonali aspettative.
Di notte tendi a ricrederti, come accade con tante, troppe cose. Tendi a considerare diversamente i particolari che qualche ora prima ti erano sfuggiti. Primo fra tutti il luogo: il Pireo è il porto e forse avremmo dovuto considerare che il porto di una grande città può rappresentare un luogo non troppo sicuro dove passeggiare di notte. Secondo particolare: l’insegna. Nel depliant c’era la foto dell’insegna del locale, ma solo presentandoci lì di persona ci siamo resi conto delle differenze con l’insegna originale. Si, originale nel senso di vero Hard Rock Cafè. Vero Hard Rock Cafè nel senso che quello che avevamo di fronte ne era un’imitazione per serial killer, probabilmente. Oppure una trappola per candidi ragazzi. Fatto sta che oramai eravamo lì fuori, davanti al locale e non sembrava poi nemmeno accettabile un dietrofront da codardi.
“Dai ragazzi, siamo arrivati fino a qui. Non facciamo i codardi ed entriamo”.
Ed entrammo.
Qualche ubriacone riuscì anche a guardarci mentre noi avanzavamo con fare non troppo sicuro. Sembravamo verginelle che portano secchi di vasellina sul set di un audace film porno. Tenere pecorelle nella capitale dei lupi. Intano i suoni gutturali di un paio di Atenesi in alterato stato di coscienza facevano da cornice al nostro silenzioso avanzare. Uno ci gridò anche qualcosa ma, complice la barriera linguistica, fummo costretti a rifiutare educatamente sorridendo con fare sperduto. La puttana, intanto, ci guardava e noi le guardavamo quelle molli e decatute tette, mentre arrivavamo grevemente al bancone.
Ci chiese qualcosa nella sua lingua e noi rispondemmo in inglese. Un inglese improbabile ma che divenne illuminante quando pronunciammo le tre parole magiche:
Hard
Rock
Cafè
La risposta gonfiò ancora di più le nostre paure e i nostri pregiudizi. Lei si avvicina con il suo davanzale traballante e ci sussurra: “I call my boss”. Deglutiamo. Tutto, dal significato all’accento quasi slavo, ci fa pensare all’enorme cazzata che abbiamo fatto.
“Sta andando a chiamare il boss ragazzi, è ora di andarsene. Qui si mette male cazzo, si mette maledettamente male.”
“E che facciamo? Scappiamo? Da qui all’uscita ci saranno trentotto assassini. Quelli sono come i cani, se scappi ti mordono”
“Mi sto cagando sotto ragazzi, mi sto cagando addosso…”
Giusto il tempo per capire che probabilmente non avremmo mai più rivisto la madre patria ed ecco che arriva il “Boss”, preceduto da un addome tanto grande che pensiamo tutti al cannibalismo. Barba lunga, gilet di pelle e maglia sporca, molto sporca, che lo abbraccia. Qualche tatuaggio sull’avambraccio inneggia a qualcosa che non comprendiamo ma l’unica cosa a cui penso è dove vorrei che venissero sparse le mie ceneri.
“Do you want Hard Rock Cafè? This WAS Hard Rock Cafè.”
Silenzio. Io e i miei amici da una parte. La puttana e il boss dall’altra. Gli ubriaconi stesi sui tavoli dietro di noi e le chitarre con le corde arrugginite appese ai muri. Il boss ci fa segno di seguirlo e noi, giovani e spensierati non opponiamo resistenza. Lo seguiamo rassegnati a tutte le cose terribili che ci farà. Apre una porticina ed entriamo, tutti e cinque, in un garage dai muri grezzi, all’interno del quale vediamo, inspiegabilmente, una macchina in parte arrugginita e adagiata su quattro blocchetti di cemento. Ci guardiamo e non sappiamo cosa pensare.
Poi d’un tratto, la gentile signora che fino a quel momento ritenevamo essere una tipa dai facilissimi costumi (fatto comunque mai confutato) solleva un pannellino di metallo e accende una piccola insegna luminosa, mostrando un bancone di oggetti, gadget e magliette con ben incisa sopra la scritta “Hard Rock Cafè”.
Tre parole magiche cambiano nuovamente la nostra prospettiva su tutta quella storia:
Hard
Rock
Cafè.
Si, perché quello ERA l’Hard Rock Cafè, prima di perdere la licenza o qualcosa del genere. Ora era solo un’innocua e sporchissima bettola per disperati ancora stracolma di gadget da acquistare a prezzi vantaggiosi.
Ce ne andammo discretamente soddisfatti, da quel posto, ancora elettrizzati per essere in vita e più o meno integri. Avevamo avuto un’avventura da veri uomini, pur non essendolo propriamente e, soprattutto, avevamo vissuto qualcosa che ci saremmo portati dietro per molti anni: un cambio di prospettiva sulle cose e sulle persone, un ricredersi dopo aver usato i pregiudizi e le opininioni in modo facile e fuorviante.
Comunque il Boss, tipo simpatico, ci offrì una nottata in saldo con la tipa del bancone che, gentilmente, rifiutammo.