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1998

Ho ricordi vividi di quell’estate. Immagini, profumi, suoni. Ho quella sensazione, tutte le volte che ci penso, che si aggancia alla base della gola, che te la stringe e scende fino alla bocca dello stomaco: una sensazione che identifico sempre con l’adolescenza. Un dolce amaro difficile da mandar giù e impossibile da non desiderare.

Le colline dolci, della cittadina assolata, contrastavano con lo sforzo che mettevo nelle gambe. Risalire a casa, dopo le mattinate trascorse a girovagare, mi imperlava la fronte. Sforzo fisico di un corpo non allenato al movimento e stress mentale, tensione, per il ritorno a casa. L’odore dei giornali dell’edicola sotto casa, quella carta plastificata e colorata di avventure immaginarie. Lo sguardo assente della vecchina seduta nel chiosco che con fare distratto mi chiedeva ogni volta “Porno?”. Poi c’erano le risate, mie e del mio amico, che serpeggiavano per i vicoli della cittadina. Quella pietra antica, tutta italiana, a fare da cornice a due tipetti zuppi di ormoni. Disgustosi, eppure nel centro della vita.

Il 1998, per me, è ricco di queste cose. Ancora oggi, tornando raramente nella mia città natale, mi sembra di sentire quelle risate, quegli schiamazzi rauchi, la puzza di sudore. Passando per le vie, oggi cambiate, si sovrappongono immagini di anni passati, eventi succeduti in fretta, gioie mai tornate indietro e dolori troppo elastici da dimenticare.

Ci si metteva d’accordo, in quegli anni, come avevano fatto i nostri fratelli, come avevano fatto i nostri genitori; alzavamo il telefono di casa. 9 su 10 rispondeva qualche familiare con il quale usare sempre la stessa formula e intonazione, sperando di non dover fare una vera e propria conversazione, driblandolo agevolmente. Che poi, diciamocelo, nessuno aveva voglia di fare conversazioni inutili: i minuti al telefono si pagavano. Nessuno tranne la nonnina del mio amico. Sì, lei se ti intercettava, seppure al telefono, ti teneva almeno un quarto d’ora con aneddoti biblici e altra roba. Il rito del telefono, per noi tipetti né grandi né piccoli, era una sorta di rito di crescita. Come avevano fatto i nostri fratelli maggiori così facevamo noi e questo era il loro passaggio di consegne.

Si usciva la mattina, si usciva il pomeriggio, noncuranti del caldo afoso, che fosse Giugno, Luglio o, addirittura, Agosto. Gli amici erano l’àncora, i genitori le acque in burrasca. Le ragazze…isole su mappe che non corrispondevano mai alla realtà. Ma il gioco era proprio quello: girovagare, guardare e volare con l’immaginazione, magari con il Walkman attaccato alla cinta e con dentro una cassetta degli Oasis a consumare le cuffie. Ci si guardava attorno, le coetanee cesse e inguardabili, quelle più grandi belle, truccate e sicuramente inarrivabili. Non ci si illudeva eh, ma il bello era immaginarsi di poter essere all’altezza.

Un anno di Mondiali di calcio, ancora mi ricordo quel francese che ci prese per il culo, dopo la vittoria della Francia. Bastardo mangia lumache. Un anno di tante piccole cose che non rifarei per nessuna ragione. Una tra queste è la colazione con lo Spuntì. Quale essere senziente sceglierebbe di fare una colazione del genere? Ecco, presente…Una roba che oggi non darei neppure ai miei gatti in tempi di magra.

Ma poi il girovagare finiva, le ragazze più grandi a zonzo per la via rincasavano, gli amici tornavano nelle loro camere tranquille, e io mi ritrovavo su quella via dolcemente in salita, con la fronte madida di sudore, mettendo energia nelle gambe poco allenate. Gettando un’ultima occhiata all’edicola, un ultimo sguardo ai fumetti e alle riviste e alla vecchina mezza assopita che rispondendo al mio sguardo sussurrava “Porno?”. Un ultimo tentativo di portare via la mia mente mentre citofonavo, mentre rincasavo. Come ogni giorno di quell’assolata estate del ’98.