Nei primi anni ’90 godevi di una certa libertà, nonostante potessi avere un’età molto verde, nonostante la conoscenza fosse limitata. Ecco, nel 1993, ad otto anni, il mondo mi permetteva di sganciarmi dallo sguardo di mia madre, tipica madre italiana della generazione scorsa, casalinga annoiata ma mai disperata, di uscire dal cortile della villetta immersa nel verde al di là della periferia d’una cittadina di periferia. Un piccolo sputo di casupole, villette, ognuna con un giardino tutto proprio, alberi alti e cani muscolosi a fare da guardiani; un richiamo all’America dei film della generazione ancora prima, all’idea del modello di vita che ha lentamente impregnato la nostra cultura in quegli anni cullandoci con la prospettiva di poterlo vivere, di poterlo fare nostro. Almeno fino al risveglio avuto nei primi anni 2000. Uno sputo di villette, dicevo, collegato da un’unica strada che si diramava in piccole stradine malamente asfaltate, un’altalena di saliscendi da percorrere con la bicicletta per andare a trovare gli amici di quartiere e da fare all’inverso per fare a gara a chi premeva per ultimo i freni, per vedere chi era il più coraggioso.
Mai stato un tipo pieno di amici, un tipo che si circonda di persone superficiali pur di averne attorno. Avevo giusto un amico, un ragazzino di otto anni come me che viveva in una casa più grande e più bella della mia. Un tipo ambiguo e che aveva ereditato la sua ambivalenza dal rapporto malsano che i genitori avevano instaurato l’uno con l’altra e poi, inevitabilmente, con lui e con i fratelli. Quando conobbi Thomas, Thommy per gli amici (ovvero solo per me), aveva appena visto il padre lasciare definitivamente casa, mollando la madre, una tedesca naturalizzata e che parlava perfettamente italiano, da sola in una villa bellissima in stile USA, dislocata su due piani più tavernetta e con un giardino sul retro. Una giardino grande, ai miei occhi, con alberi, erba alta ed una casetta in legno. Lei, la fascinosa tedescona alta e magra ma con la faccia tipica delle tedesche che sembrava una mozzarella scaduta, alzava qualche soldo con ripetizioni di inglese ai ragazzini del vicinato, tra cui io, mentre attirava su di sé le attenzioni dei papà e l’invidia o l’odio delle mamme. Tuttavia era l’unica a proporre in tutta la periferia ripetizioni di lingua inglese. Se mio padre fosse anche lui affascinato o meno dalla tedesca non lo seppi mai, ma mia madre iniziò una sorta di amicizia con lei, quindi dedussi all’epoca che mio padre facesse il bravo, o che non desse mai a vedere alcun tipo di interesse.
Sola con tre figli, di cui uno Thommy, viveva in quello che la mia mente di ragazzino di otto anni decodificò come il prototipo della casa perfetta. La moquette a terra, così fine anni ’80, i mattoni in bella vista in quella tavernetta con il soffitto basso. Camere singole per ogni figlio, un gran salone dove allestire un enorme albero natalizio, tavoli in legno solido e massiccio e quel giardino sul retro: quel giardino che nascondeva ad ogni imbrunire della sera, fitti misteri che solo io e il mio amico potevamo intuire. E poi c’era quella casetta in legno, costruita dal padre che mai avevo visto o conosciuto, il padre spazzato via dalla furia di ciò che era l’incubo dei bimbi: il divorzio. Quella casetta in legno rappresentava, definitivamente, la differenza tra me e lui.
Casa mia, la mia casa d’infanzia dove crebbi fino ai dodici anni, era sempre stato un gran casino. Un ammattonato bianco tanto voluto da mio padre, tanto sudato nella sua costruzione, che aveva cancellato ogni filo d’erba ripulendo ogni cosa secondo il suo punto di vista, eppure distruggendo ogni aspetto del mondo avventuroso ai miei occhi di bimbo. Anche nel mio giardino avevamo una casetta, eppure era di lamiera, brutta e accidentale dove erano riposti vecchi attrezzi e dove non mi era permesso andare per nessuna ragione. Due pini circondavano la villetta, altissimi e protettivi, con un cane anaffettivo che abbaiava ad ogni passante. Dentro, gli spazi sembravano ricavati e non pensati: un’unica stanza per me e mio fratello, costantemente contesa e che, comunque, rappresentava più per lui che per me un rifugio adolescenziale dal resto dell’allegra brigata. Ancora amo quella casa, quando ci penso, pur avendo sempre avuto la consapevolezza di quanto fosse imperfetta, di quanto fosse sbagliata.
Bastava dire “Ma’, vado da Thommy. Torno per cena.” E potevo slegarmi dal controllo genitoriale. Al limite era richiesta l’autocertificazione “Sì, li ho fatti i compiti.” per avere un’autorizzazione a tutto tondo. Prendevo la bicicletta e fuori dal cancello ero libero. “Libero” significava essere iniettato in un mondo ben più selvaggio di casa mia, una grande strada asfaltata dove schivare il pericolo delle macchine, piccole strade semisterrate dove scendere a grande velocità; cani, talvolta, lasciati liberi come mine vaganti per il nostro girovagare. Non lo sapevo, all’epoca, ma quell’infantile girovagare era il predecessore delle tante escursioni che avrei fatto da adolescente, quelle rese semiserie dalle occhiate furtive lanciate alle ragazze della cittadina dove mi sarei trasferito. Iniziavo lì il mio crescere eppure non potevo saperlo.
A pensarci ora, dopo tanti anni, quella con Thommy non era una vera amicizia, ma solo la sua costruzione. Quella con Thommy era l’edificazione di un rapporto di amicizia, un’interscambio fine a se stesso o, magari, fine al passare i pomeriggio dopo scuola, sfruttando quella fottuta casetta di legno che ancora oggi, che ho la barba che sta diventando grigia sulle guance, gli invidio. Ecco: essere amici ad otto anni vuol dire imparare ad essere amici. Non esserlo. E non lo sapevo. Come non sapevo che avere una fidanzata a sedici o diciotto anni da chiamare “amore” non significa spesso avere un rapporto o provare vero amore, ma solo imparare ad averne uno. Imparare ad esplorare ciò che si può provare per un altro essere umano. Brutale? Forse, ma pensandoci la vita è un insieme di prove ed errori, come quasi tutta l’esperienza in sé. Pensandoci, si va avanti così con ogni cosa e nessuno te lo dice mai. Tocca a te scoprirlo a posteriori.
Pensandoci bene Thommy non era mio amico e io, proprio no, non ero il suo. Eppure quella casetta in legno, in quel giardino un po’ incolto e fitto di misteri ad ogni imbrunire, è la cosa che più si avvicina all’idea di amicizia ad otto anni che ho in mente, ogni volta che ci penso. L’idea di infanzia, condivisa, tra le pareti in legno messe su da un padre che se ne è andato per via del divorzio, circondati da un giardino che è solo un giardino, ma che a te sembra un mistero da scoprire.