Eravamo in tre. “I tre amigos” ci chiamavamo. Un modo ridicolo di chiamarci ma, pur essendo ridicolo, ci piaceva da matti. Quello che ho imparato dell’amicizia l’ho imparato proprio facendo parte di quel piccolo gruppo, facendo parte di quel terzetto adolescenziale. Coesione, condivisione, risate e pianti, ancora risate e differenze. Le differenze poi, ho capito, sono quelle cose che sempre più si ingigantiscono fino a quando non puoi più reggerle. Diventano grandi e deformi e se in alcuni casi le tieni per anni e anni ancora, in altri ti scoppiano tra le dita quasi subito e sei costretto a prenderne coscienza. Ma finché dura, pensavamo, godiamocela. E allora eravamo come fratelli, proprio mentre scoprivamo che i veri fratelli di sangue non erano così bravi nell’esserlo. Vivevamo in prima persona le prime esperienze e lo facevamo spalla a spalla, in tre.
Matteo morì un anno dopo la maturità. Quando ci penso metto in piedi quello che fanno in molti: credo sia ancora lì fuori e che non mi chiami per qualche motivo. Si è sposato, fa un lavoro che lo fa mangiare e vivere, paga la sua automobile in tantissime comode rate, magari ha dei bimbi o magari no, ma non mi chiama. E questo mi fa anche incazzare. Sono incazzato con lui e lo sono da un anno dopo la maturità, da quando ha deciso di “sparire”. Da quando ci ha lasciato in due.
Ma così va la vita, suppongo.
Con Andrea eravamo amici da prima, dall’inizio delle scuole medie e abbiamo “inglobato” nel nostro giro Matteo all’inizio delle superiori. “I tre amigos” erano talmente inseparabili che eravamo gli unici ad avere, a scuola, tre banchi uniti. Una classe di tre lunghe file da due e poi noi. Sorridenti. Più forti degli altri perché “terzetto di qualità” come diceva Matteo. Stronzate sulle quali ridevamo di gusto. Giorno dopo giorno.
Eravamo noi tre, quella volta in Grecia nell’Hard Rock Cafè. La raccontammo un milione di volte tornati in patria e, un paio di volte, io c’ho anche rimorchiato. Nulla di che, ma sapevo come condire la storia in modo da farla sembrare un’avventura. Era questo lo spirito dell’amicizia che ci univa: vivere la vita, sommare le esperienze, cagare fuori qualche considerazione con la quale crescere. In tre ci si riusciva meglio. Avevi molto più materiale e, soprattutto, avevi più materia grigia con la quale lavorare. Non è poco, no?
Andrea era lo spigliato, il combattivo che portava avanti le battaglie ideologiche, che ce le spacciava come fossero caramelle all’hashish. Era forse il più brutto dei tre ma di certo quello di maggiore fascino, quello più apprezzato dal genere femminile. Matteo era invece il cazzone. Verdissimo di mentalità, un bambinone con una barbetta poco cresciuta sul mento che per forza ti faceva ridere, anche quando non voleva. Io mi collocavo, probabilmente, nel mezzo. Ci sapevo fare di meno con le ragazze ma ero quello più bello, prendevo a cuore ogni causa che mi venisse messa in mano e scambiavo la mia vera famiglia con quella che mi creavo. Lo facevo continuamente.
Quando cresci ti dicono che hai vissuto in una sorta di campana, in una recinzione che ti distanziava dalle difficoltà del mondo, perché il tuo ambiente è stato quello di una cittadina di periferia, non troppo grande né troppo piccola, mai eccessivamente distante dalle braccia paterne della famiglia. Eppure non era così. Ci si mischiava, tra noi, le preoccupazioni per il futuro, i drammi del passato e soprattutto gli accidenti quotidiani. Quello su cui più ci si corrodeva, giorno dopo giorno, era trovare una via d’uscita dal nostro ambiente, dal nostro nido cittadino che rappresentava costantemente una prigione. Eravamo cuccioli affamati in un mondo di convinti dietologi spietati. Attorno a noi solo coetanei bramosi di semplicità: capello alla moda, vestiti alla moda, parlata alla moda e pensieri alla moda. Gente per bene che ti ammazza l’anima. Pensavamo che scendendo a patti con persone del genere ne saremmo stati corrotti. Quello che gli anni mi hanno insegnato è che era vero, avevamo ragione. Senza se e senza ma, era dannatamente vero. Se scendevi a patti, se entravi nel giro e ti lasciavi trasportare, quello che diventavi non era altro che l’ennesimo adolescente, l’ennesima ombra in cerca d’un divertimento facile, che fosse una ragazza, che fosse un pallone o qualche battuta scema e irrispettosa. Saremmo diventati gli ennesimi adulti in cerca di una vita da trascorrere con semplicità. Questo e nient’altro.
Ricordo che a sedici anni passavamo i pomeriggi d’autunno a fumare sigarette in un vicolo della cittadina, un vicolo riparato dal vento, dal freddo, dalla gente. Trascorrevamo le ore, sigaretta dopo sigaretta, immaginando cosa avremmo fatto da lì a dieci o vent’anni. Sigaretta dopo sigaretta, condendo le ore con lunghe discussioni sulla musica, libri, filosofia spicciola, battute e aneddoti, molti dei quali inventati. Un pomeriggio Matteo se ne uscì con l’invenzione del secolo: secondo lui passare la fiamma dell’accendino sui polpastrelli eliminava la puzza di fumo. Io e Andrea non ne fummo mai troppo convinti, sembrava una delle sue famose stronzate, quelle raccontate tanto per raccontare, tanto per avere ragione. Qualche tempo dopo invece rimanemmo sorpresi della sua decisione di smettere con le sigarette. “Basta, mi schifano” disse secco. Il suo rifiuto durò due mesi, un periodo intenso in cui rimaneva lì nel vicolo a guardarci con bramosia, a distanza dal fumo per non impregnare i vestiti. Solo due anni dopo scoprimmo che suo padre, fervente e misericordioso cattolico, una sera lo frustò con la cinta dei pantaloni. Dalla parte della fibbia. Rientrato a casa, Matteo, scoprì che passando al fiamma dell’accendino sulle dita non spariva l’odore di sigaretta e scoprì anche che, a volte, la frustrazione trova la sua valvola di sfogo peggiore sui propri amati.
Condividevamo tutto, eppure quel gravissimo fatto non ce lo raccontò per ben due anni. Poi ce lo disse in modo diretto e senza preamboli. Senza teatralità, senza lacrime. Senza niente. Ce lo disse e basta. Noi rimanemmo zitti e non lo guardammo in faccia per diversi minuti.
Inutile a dirlo riprese a fumare con maggiore costanza e lo fece fino alla fine. Io smisi invece alla fine del liceo.
Non ho mai amato le sigarette eppure adoravo passare il tempo fumando in quel vicolo.