[12]

Al silenzio devo molto. Spesso ricorro al silenzio per andare avanti.

Passo intere giornate ingozzando le orecchie con i rumori più o meno molesti della città, con le parole più o meno insensate delle persone e, fortunatamente, con la musica che scelgo responsabilmente. Ma poi, inevitabilmente, come una posologia oculatamente prescritta da un medico, mi forzo al silenzio. Spengo tutto. Strappo cavi di alimentazione dai muri, spengo arnesi e ripongo cuffie. Lascio le cose al loro posto e chiudo la bocca. Anche io, come uno dei tanti altoparlanti disseminati in giro, mi riduco ad uno stato di totale passività. Ed è in quel preciso momento che inizia un magico interludio.

Il silenzio non è assoluto, non è completo e autosufficiente, non è totale assenza. L’esatto opposto. I primi cinque minuti ti rilassano, quasi ti stordiscono svegliandoti da un imbarazzante torpore quotidiano. Ti senti solo, finalmente. Ti senti in via di guarigione. Poi, d’improvviso, ti accorgi che al di sotto del folto sottobosco suburbano di suoni esiste un’immensa platea di piccoli rumori, di piccoli indizi della vita che ti circonda.

Vita vera.

Uno starnuto. Il vicino di casa, anziano di novant’anni si sputacchia nella mano, si spera, si lamenta per lo sforzo e muove circolarmente la dentiera, sistemandosela. Si lamenta aspramente mentre sistema il culo ammorbidito dal pannolone sulla poltrona. Si è appena svegliato dal riposo pomeridiano e tra poco afferrerà con la mano tinta del viola delle vene, il telecomando. Tra poco farà urlare nuovamente la televisione con qualche programma stupido e a cui neppure lui è interessato.

Dei passi. Qualcuno, oltre la finestra, in strada corre per le strade deserte. Sull’asfalto la suola di gomma risuona e sembrano quasi passi da gigante. La corsa dei runner è un po’ l’emblema della nostra società, della nostra cultura: ci si muove e si corre non avendo alcuna meta, non godendo affatto del panorama che circonda. L’unica cosa che importa è il movimento in sé. La corsa.

Qualcuno piscia al piano di sopra. Un ticchettio umido che mi fa sempre sorridere. Sorrido perché il tipo, o la tipa, al piano di sopra pensa di fare le cose in totale intimità, chiudendo la porta ai propri cari. Invece io, qui di sotto, lo sento pisciare. Lunghe pisciate interminabili. Quanto bevi amico mio?

Accanto a me, il gatto 1 di 2, sbadiglia rumorosamente. Io lo guardo e lui mi risponde schioccando le labbra proprio come farei io gustandomi un piatto delizioso. Lui si gusta il sonno, io mi gusto il silenzio. Un silenzio che mi rincuora con mille suoni che altrimenti non avrei mai sentito.

Poi mi rendo conto che il vecchio che mi abita accanto deve aver raggiunto il telecomando. Il volume della sua cazzo di televisione si alza superando qualunque limite di sopportazione del rumore e le pareti tornano a vibrare. Riattacco i cavi alle pareti e riaccendo tutto il mio piccolo mondo.

I dieci minuti di silenzio passano oltre inglobati in suoni maldestri e sconclusionati.