“Vaffanculo”
Anni fa lo dissi forte e chiaro, e fu una dannata liberazione. In una sola parola spinsi tutta la contrapposizione che potevo, una contrapposizione ai bianchi indumenti che indossavo ad un linguaggio da tenere sempre pulito, altrettanto asettico. Si trattava di risoluzione o transizione? Non potevo saperlo all’epoca ma ciò di cui ero consapevole era che stavo prendendo una decisione e, credetemi, io con le decisioni ho un rapporto più che strano, unico direi. Il mio non si tratta di un processo tanto razionale e ponderato, non mi curvo in posa plastica come un pensatore classico, ma butto i pensieri nella pancia e li lascio macerare, li faccio crescere affinché facciano poi crescere anche me. A volte un “Vaffanculo” vale tutta la spesa, tutti i costi e gli investimenti, nonostante i grafici finanziari dicano il contrario.
“Fammi capire: hai buttato via in un solo giorno tutta una carriera, tutti gli studi e i sacrifici fatti?” Il mio sorriso storto era la miglior risposta che potessi dare. Tolsi dalla bocca il sigaro ammezzato e scaricai la cenere nel vasetto nero poggiato sul tavolo coperto da una tovaglia a scacchi da trattoria. Gli occhi di tutti, in quel momento erano puntati su di me. 18 adulti, 19 con me, tutti in fila lungo un tavolo con sopra i piatti sporchi, resti di cibo. Saremmo dovuti essere 20. Per un attimo rimasi a godermi quegli occhi presi a fissarmi, a giudicare una scelta apparentemente insensata. Barbe su visi che prima erano glabri, rasature su volti una volta appena appena ispidi. Capelli di donne giusto un po’ rovinati al posto di chiome una volta lucenti e perfette. Questo è l’effetto di una cena di classe, di una rimpatriata, dopo quasi vent’anni di assenza generale. Dopo tutto, si sa, ci si rivede per un grande giudizio collettivo, per un incontro di boxe tutti contro tutti, e anche contro se stessi. Ci si rivede per la voglia di sapere se si è migliorati e se si è vinto sui fantasmi passati. Per sapere, insomma, a che punto si è nella vita, tra le risate per aneddoti lontani.
“Ma voi l’avete mai fatto? C’è qualcuno qui in mezzo che l’abbia mai fatto? Siete mai stati tritati da ritmi massacranti per poi rendervi conto che quello che avete ottenuto non faceva per voi? O meglio: per rendevi conto che avevate soddisfatto pienamente solo una parte di voi, ma non tutto il resto.” Le cene di classe servono a questo e io glielo servii senza troppi rimorsi. Uno dopo l’altro iniziarono a scuotere le teste, a giudicare. Qualcuno si mostrò anche preoccupato; corrucciato e afflitto iniziò a piegarsi verso di me chiedendo se fosse possibile tornare sui miei passi, tornare indietro. Ma io continuai: “Allora? Qualcuno ha mai avuto le palle per dire basta? Per cambiare in modo talmente netto da far stringere il culo anche al conduttore di un gioco a premi?” Beh il silenzio, l’imbarazzo e, soprattutto, la riflessione in una cena piena di passati amici e vecchi nemici riescono ad essere il segno inequivocabile di una piccola vittoria. Ripresi il sigaro, qualcuno si alzò infastidito dal fumo pesante, qualcuno cambiò discorso, tirando fuori foto di marmocchi bruttarelli e di viaggi in paesi lontani ma contaminati da connazionali.
Io ripensai al camice bianco e pensai che quel giorno, quel giorno in cui mandai tutti a quel paese, stavo per andare nella lavanderia dell’ospedale. I camici puzzano. Puzzano da matti dopo anamnesi e terapie e questo non te lo dice nessuno prima, né dopo. Lo sai solo se lo possiedi, un camice.
“Non ti manca? Quella professione dico…”
Il sigaro oramai era finito, era divenuto cenere in una naturale combustione. I sigari iniziano con grandi fiammate e pesanti boccate puzzolenti, ma terminano tutti nello stesso modo, con piccoli cerchi di cenere dove accartocciare le foglie di tabacco pressate. È naturale, fa parte del loro ciclo. Puoi solo accenderne un altro. Un sigaro diverso, dal sapore leggermente differente, fino a quando anche quello non diventerà cenere. Va accettato, con semplicità.
“No, non mi manca. E sai perché? Perché io non sono quella professione, tutt’al più era quella professione ad avermi in prestito, ad adattarsi a me e quindi…il Vaffanculo c’era tutto e di motivi ne avevo a milioni.”
Tutti si erano alzati oramai, tirando fuori la loro parte di soldi per pagare una cena noiosa e a cui nessuno, in realtà, avrebbe voluto partecipare. Soldi sparsi per pagare i piatti pieni di giudizi sferrati ai noi stessi più giovani di vent’anni. Questo il conto non lo diceva. Ma mentre io buttavo un paio di banconote da dieci nel mucchio fui preso, per un solo momento, da un dubbio terribile. Ricordai che in quel vecchio camice, quello che puzzava di sudore e con il colletto grigio, avevo lasciato nelle tasche oltre a due penne e ad un’agenda anche due banconote. Due pezzi da dieci proprio come quelli che ora avevo davanti. Qualcuno magari ci si era pagato un pranzo o, forse, una cena di classe con vecchi amici e vecchi nemici.
Ancora un sorriso storto e “Vaffanculo” in onore dei vecchi tempi.