“Guarda che potresti sbargliarti, sai? Non sempre il massimo è di per sé segno di vera eccellenza. Non so se mi capisci, bello..Non è sempre arrivare primi la vera vittoria, bello…”
I suoi capelli bianchi gli cadevano, diradati, sulla fronte. Sembravano gocce d’un qualche tipo di materiale alieno, che fuoriusciva dalla testa, traboccando da una pelle macchiata, spaccata in alcuni punti, rugosa. Capelli di media lunghezza che tradivano un qual certo senso di trascuratezza, senza tuttavia offrire il fianco alla tristezza o alla solitudine. Giusto noncuranza. Alle pareti vecchie foto. Quel tipo che mi era davanti, che lavava bicchieri con stampati sul lato marchi di birra famosa, sembrava specchiato in un riflesso in quelle foto in bianco e nero, con i capelli scuri di media lunghezza, abbracciato ad una giovane donna e ad un caro amico.
Io seduto alla barra, su uno sgabello scomodo e con l’imbottitura lacera. Infilavo le dita nel piattino delle noccioline. Il sale restava sui polpastrelli, il resto scendeva nella mia gola. Una birra? Forse due. Non di più. Ero uno studente universitario, 23 o 24 anni e le giornate sembravano sempre lunghe. Le ore col sole, passavano lente immerse tra le pagine di libri di grandi professori, grandi teorie scientifiche, dati e numeri. Le ore col buio, poi, passavano più veloci tra le cene fugaci, le chiacchiere tra amici e lunghe passeggiate nel quartiere universitario della città, un quartiere che sembrava non dormire mai. Ubriaconi e tizi strani con i cani con guinzagli fatti di corda. Il giorno dopo si ricominciava. Non c’era alcuna forma di romanticismo Bohémien in tutto questo, solo una noia fottuta che pervadeva ogni singolo momento della giornata. Obbligo su obbligo, piegati e ripiegati su se stessi e sempre lì a schiacciarti e soffocarti. “Come possono essere questi i miei vent’anni?” mi chiedevo buttandomi le noccioline in gola, ancora e ancora.
“Oh bello mio! Ma ti vedi? Cazzo hai fatto? T’ha mollato la ragazzetta?” Si era fermato lì davanti a me, il proprietario del bar. Aveva smesso di asciugare i bicchieri della birra e mi guardava con lo stesso sguardo del suo corrispettivo più giovane nelle foto, solo più stanco e incorniciato di bianco.
“Ma no, no…che ragazzetta?!” e giù di nocciolina.
“E allora bello? Ancora per quella storia dell’esame universitario?” Un gesto di stizza con lo straccio per i bicchieri della birra, un mezzo sorriso “Non hai sentito un cazzo di quello che ho detto prima, eh? Di questo passo diventi ricco, ma triste e stronzo come tutti gli altri.”
All’epoca mi alzavo alle cinque, mettevo una tuta vecchia e rattoppata e andavo ad appendere cartelloni elettorali. Colla, cartellone e colla di nuovo. Una sfilza di stronzi in cravatta con slogan tutti simili ma simboli e colori differenti. Un secchio e una scopa come strumenti. Un paio d’ore per finire il giro e poi a casa, un piccola stanza in affitto in un appartamento di studenti. Libri fotocopiati illegalmente, per risparmiare qualche soldo.
“Beh, ricco non sarebbe malaccio no?” Azzardai io pensando alla colla.
Il tipo si girò lentamente, tradendo qualche problema all’anca. Strizzò gli occhi e mi guardò per un paio di secondi.
Colla, cartellone e colla di nuovo.
“Giusto bello mio. Non è malaccio. Ma, ripeto, forse non hai sentito quello che ti ho detto prima: arrivare primi non equivale a vincere. Nemmeno per sogno. Quante cose stai sacrificando per arrivare sempre primo, eh? Hai la faccia di uno che prende sempre il massimo…”
Non so dove la vide quella faccia, avevo la barba lunga, i capelli lunghi e un paio di Jeans logori sulle ginocchia. Però era vero, arrivavo sempre primo. Ottenevo sempre il massimo ad ogni esame universitario.
“C’ho preso eh, bello mio? Beh ti faccio un’offerta: ti offro un paio di birre a sera per una settimana, a patto che da domani ritagli del tempo per leggere un libro serio. Non dico quei libri che leggete voi studentelli della facoltà qui vicino. Dico libri seri: Shakespeare, Dostoevskij, Asimov, Orwell…fai te. Qualcosa però, che quando lo chiudi, ti faccia sentire quegli ingranaggi che hai nella testolina ben oliati. Qualcosa che ti faccia pensare e non solo imparare. Studiare non significa capire, sai? Mio figlio ha frequentato la tua stessa università e sai cosa gli dicevo sempre? Studia, studia, che tanto non capisci un cazzo.” Disse con un sorriso amaro.
Ci pensai un momento senza nemmeno, sinceramente, capire perché mi stesse facendo quell’offerta. E il tipo, senza attendere la mia risposta si girò a servire un tipo appena entrato nel locale.
Con le dita ancora piene di sale mi alzai, pulii le mani contro il jeans sporco e me ne andai dopo aver pagato le birre. Mi faceva sentire meglio l’idea che qualcuno ritenesse una sorta di sconfitta arrivare primi. Non sembrava una cattiva cosa un secondo dignitoso posto, a patto che fosse per ottime ragioni. Spendere meglio il tempo invece che rincorrere risultati.
Uscito dal locale mi misi in cammino per tornare a casa. La strada tagliava in due il quartiere universitario e passando proprio accanto all’uscita di servizio della mia facoltà. Uno slalom tra i vetri rotti delle bottiglie di birra e le cagate di cane, una passeggiata tra i cartelli elettorali appesi in fila, ripetizioni di facce da cazzo appese con la colla. Proprio lì, vicino all’entrata di servizio della mia facoltà, campeggiava una scritta fatta con una bomboletta. Una scritta nera su sfondo bianco, in corsivo:
“Studia, studia, tanto non capisci un cazzo”.