Era mattino, era presto. Prima ancora che il sole fosse del tutto sorto, io avevo già indossato i miei jeans, per metà scoloriti e per la metà restante non del tutto integri. Il cielo si presentava come una matassa grigia, estesa e piatta, dove i ricami delle nuvole sembravano voler incidere sull’umore di tutti. Di tutti noi. Poco al di là della vallata un temporale rendeva ancora più scuro l’orizzonte, come a presentarsi in modo insindacabile e severo. Indossai la giacca di pelle nera e affrontai il viale appena davanti casa. Il rumore dei passi amplificato dal silenzio assorbito da ogni bocca chiusa dei miei vicini, da ogni testa reclinata sui guanciali a sognare nuovi gioielli, nuovi telefoni o automobili sportive. “Ad ognuno il suo schifo di desiderio irrealizzabile” mi disse una volta un’amico. Ad ognuno il suo. Nessuno dietro alle proverbiali serrande per una spiata dell’ultimo minuto. Mi avvicinai alla macchina ferma poco oltre la curva, i fari ancora accesi nonostante ci si vedesse bene. Chiudendo lo sportello, piano, l’odore della plastica cotta dal sole, di benzina e sigaretta mi arrivò direttamente al naso ed oltre. Era una vecchia ford, stancata da guide sconsiderate e da un’igiene precaria, molto precaria; sembrava chiedere pietà in vista d’un viaggio lungo chilometri che nessuno aveva voglia di fare, tanto meno lei.
Mio cugino girò poco la testa, fissandomi da sotto un paio di occhiali da sole tondi e alla moda. Lenti scure e fari accesi all’alba. “Abbiamo tutto?” mi chiese con una voce limpida e profonda che non tradiva sonno né stanchezza ma solo determinazione. Indicai con un gesto della testa lo zaino vecchio e scolorito che avevo tra i piedi. “Bene.” disse mettendo il braccio sinistro, totalmente ricoperto di tatuaggi, sul volante e la mano destra, nera di scritte, sulla leva delle marce. “Ho bisogno di te, chicco mio, altrimenti non ti avrei chiesto di aiutarmi lo sai…E poi me lo devi”. Non ero bravo in quelle cose, non lo sono mai stato. Guardando fuori e cercando di avere la sua stessa fermezza nella voce dissi piano “Parti dai, non rompere i coglioni e parti…stiamo facendo tardi.”.
Forse è prerogativa dei secondi su due desiderare un fratello o una sorella minori. Avere qualcuno da proteggere o aiutare. Qualcuno per cui essere un punto di riferimento perché, vuoi o non vuoi, spesso i primogeniti falliscono in questo compito. Spesso i primogeniti sono la versione in crisi di quello che saremmo stati noi e mai siamo stati. Ma vallo a sapere se poi funziona così. Avevo, però, quel cugino più giovane di me di un paio d’anni. Tutto riccio e biondo sembrava quasi una mia versione alternativa. Compagno di giochi da ragazzini e segreti sporchi da ragazzi, rappresentava per me il fratello minore mai avuto. Rappresentavo per lui, invece, un fratello maggiore e un punto di riferimento, anche se poi una volta mi disse che sembravo “la versione in crisi di quello che sarei io se fossi stato tuo fratello maggiore”. Vai a capire come funziona… Fatto sta che mentre lui aveva l’apparenza di un tipo rilassato, sempre e comunque, un menefreghista e mezzo criminale io avevo addosso sempre l’aria di uno responsabile ma preoccupato, complicato e immerso nei pensieri e nei problemi; un bravo ragazzo buttato nella mischia. I miei capelli castani, lisci e lunghi, facevano da contrasto ai suoi ricci e biondi; la mia barba folta si stagliava contro la sua barbetta incolta; le nostre figure, tremendamente differenti, sembravano qualcosa di sbagliato messe assieme in quella macchina e a quell’ora, come due lavoratori costretti dal tragitto a percorrere il percorso in compagnia, diretti in fabbrica ad un’orario improbabile, mentre la loro volontà li avrebbe riportati dritti a letto dalle proprie mogli. Caffè in tazzina, non troppo zucchero che ti fa male e vestaglia dai colori pastello allacciata sul davanti. Ecco che coppia eravamo in quella vecchia ford stremata che puzzava di benzina e plastica cotta al sole, piena di briciole e cicche di sigaretta, mentre attorno a noi le strade rimanevano addormentate e svuotate, mentre il cielo restava grigio in una mattina dei primi di settembre. Mentre qualche disgraziato ci faceva compagnia al casello dell’autostrada. Due legati dal sangue e che per il sangue e solo per quello si sarebbero gettati chilometri e chilometri alle spalle. Oltre la barriera del casello con un indirizzo preciso da raggiungere, al confine opposto del paese.
Le nostre famiglie erano simili, per certi versi, differenti per altri. Ci univano gli intenti, i buoni propositi culturalmente intrinsechi nelle persone che ci avevano cresciuto, ma ci dividevano i mezzi. A volte basta poco per creare un cazzo di sliding doors pazzesco che ti fa ritrovare dall’una o dall’altra parte della carreggiata. Basta una parola di troppo, una sensibilità di troppo, una spinta troppo forte o troppo debole ed ecco che se da una parte riesci a sfruttare le risorse che madre natura t’ha dato nel migliore dei modi, dall’altra ti ritrovi allo sbando, ti ritrovi da solo con un te stesso che non ti aiuta neppure se lo paghi. Nonostante tutti i casini della mia famiglia, io, avevo imparato la lezione migliore del mondo: il piano b. Per me “il piano b” era diventato un chiodo fisso, il programma da adottare in caso di sconfitta ma anche in caso di vittoria. “Il piano b” significava per me non arrendersi mai, prima ancora che la vita decidesse di mettertelo nel culo oppure no, significava fotterla prima che fosse lei a fotterti, o rialzarti una volta accusato il colpo. Ecco, mio cugino si era sempre fermato a “il piano a”, una debolezza che però gli conferiva quell’aura perenne da trentenne rilassato e giovanile, da scapestrato senza futuro e rivoluzionario senza storia. Cuccava come un maledetto. Cuccava da sempre. Le brave ragazze le ammaliava col fascino del tenebroso, le cattive ragazze con l’aiuto di serate alcoliche e sfrenate. Aveva avuto due figli da due donne diverse, neppure mezza relazione stabile e un sacco di soldi da trovare a fine mese per crescere quei bimbi. Mio cugino si era limitato da solo con un “carpe diem” interpretato alla cazzo di cane. Sliding doors ed io mi ero incattivito, preoccupato e incattivito, sempre pronto a trovare una soluzione alternativa. Sliding doors e lui se ne stava lì, ogni volta compiaciuto per progetti che si sarebbero rivelati scellerati, situazioni al limite della legalità e casini giganteschi, eppure con la faccia rilassata e senza l’ombra d’una ruga.
Una moto aveva appena sfiorato la fiancata della nostra auto, con un rombo esagerato che mi aveva svegliato di colpo. “Figlio di merda…” aveva sussurrato lui, rivolto al centauro in autostrada, mentre io mi tiravo su, facendo leva sul sedile sgangherato. Il cielo ancora grigio mentre il sole, dietro le nuvole spesse, stava calando con un tramonto dimenticabile. Con una manata sul viso avevo cercato di mandare via il residuo del sonno che mi si era attaccato addosso. Alla radio Blowin In the Wind con un Bob Dylan gracchiante dalle casse otturate.
“Insomma? Hai pensato a come procedere?” gli chiedo mentre lui continua a guardare fisso davanti, sempre con gli stessi occhiali tondi e scuri. Poi mi guarda veloce, tornando subito con lo sguardo sulla strada, mezzo sorrisetto al di sotto dei baffetti:
“Intanto ce ne andiamo a cena da qualche parte e ci fermiamo per la notte. Non mi va di guidare col buio.”
Io continuo a guardarlo fisso e poi gli dico: “Guarda che non siamo in gita eh…Non è una vacanza. Sono partito come un ladro da casa scrivendo al volo un messaggio a mia moglie e quando tornerò di sicuro dovrò non solo spiegare il tutto ma ci dovrò anche litigare sopra. E parecchio anche.”
Lui mi guarda ancora con quel sorrisetto, un sorrisetto criminale: “Me lo devi chicco, me lo devi…”.
“Me lo devi un cazzo! -inizio a scaldarmi- Posto anche il fatto che sono l’unico componente della famiglia che ti parli ancora, posto il fatto che ti ho sempre aiutato e forse per questo ci sei anche mezzo abituato…questo non significa né che io mi stia divertendo a fare questa roba né che possa farla con leggerezza. Te lo ripeto: non è una vacanza per me.”
“Pensi che per me lo sia?” Il sorrisetto era scomparso. Lo sguardo dietro gli occhiali da sole era calmo, dritto. Sul braccio sinistro spiccava la scritta “Why, Mother?!” e sulla mano destra un teschio con i denti storti, circondato da parole in corsivo. Sua madre, mia zia, era una tipa scialba, riccia e bionda anche lei, che non aveva alcun peso su nessun argomento. Una mezza addormentata nella vita che appena distogli lo sguardo te la dimentichi. Dopo il divorzio col marito era scomparsa, saltando da una storiella all’altra e il figlio l’aveva vista di rado negli anni successivi, per poi non vederla più. Si era risposata un quindicina d’anni dopo, con un tipo di cui non si sapeva un granché, in qualche parte del nord.
“No…non penso lo sia. So cosa significa per te. Ma facciamo in fretta, ok? Sbrighiamoci a fare questa cosa e torniamo a casa. Abbiamo delle vite. Ci fermiamo a prendere un panino o qualcosa del genere, ti do il cambio alla guida, di nuovo, e proseguiamo per qualche ora in più. Poi ci fermiamo sul tardi, da qualche parte, per dormire qualche ora. Non voglio perdere più tempo del dovuto.”
“Come vuoi, chicco…come vuoi.” Sembrava deluso. Lo conoscevo e sapevo che lo era. Probabilmente aveva immaginato il viaggio una sorta di avventura tra cugini, una rimpratriata. Quando, verso i venticinque anni, aveva iniziato ad avere problemi con l’alcol e la droga tutto il parentame lo aveva schifato. Era stato vomitato via dalla famiglia come si fa col cibo avariato e respinto perché problematico, incasinato. A nessuno era venuto in mente d’aiutarlo in qualche modo. Io avevo fatto il possibile: lo mandai quattro anni in comunità di recupero per la droga ma per l’alcol, beh quello si era dimostrato più difficile da superare. Poi aveva iniziato a riprodursi. In più di un’occasione lo avevo visto come la mia versione disorganizzata, incasinata, in crisi. Forse lo era davvero. Ma io, dopo tutto, sapevo d’avere la medesima considerazione di mio fratello: lui, con le sue quadrature, lui con il suo stipendio statale, con il maschietto e la femminuccia, la moglie dal sorriso falso e con i capelli a caschetto. Lui col cane con la frangetta da portare a spasso, niente sigarette e pulisciti quelle cazzo di scarpe quando entri in macchina che ho lavato i tappetini. Mi sono sempre chiesto chi fosse così psicopatico da lavare i tappetini dell’auto una volta a settimana oltre mio fratello. Mi sono sempre chiesto chi è che spende ore del tempo libero del weekend in tuta, rosso pomodoro, lavando e lucidando la propria utilitaria in cortile, ancora e ancora spacciandolo per normale, se non mio fratello e qualcun’altro senza nient’altro di produttivo da fare. Solo lui e qualcun’altro con la stessa tuta rosso pomodoro, la stessa voglia di stare isolato da chi hai attorno ma, mi raccomando, senza darlo a vedere. Qualcuno con lo stesso cane con la frangetta adottato solo per avere altro tempo da trascorrere fuori casa con una valida giustificazione per se stessi, qualcuno con la stessa moglie falsa e con i capelli a caschetto. Io ero il tipo poco organizzato, io ero il tipo che non lavava i fottuti tappetini dell’automobile una volta a settimana, ero quello che preferiva i gatti e che non aveva fatto il militare. Mia moglie non aveva la frangetta e, soprattutto, non aveva nessun sorriso falso stampato sulla faccia. Io ero la versione ripulita di mio cugino, ai suoi occhi.
Facemmo come avevo deciso. Guidai fino a notte fonda con lui steso sul sedile accanto al mio, con la radio che gracchiava fastidiosa. Ogni tanto il suo russare superava la voce dei cantanti e il riff delle chitarre. Ogni viaggio ha le sue colonne sonore, pensai, i suoi discorsi e i suoi rumori. I fari illuminavano una strada tutta uguale. Ci fermammo in un piccolo motel appena fuori l’autostrada. La solita stanza da due soldi con due letti singoli messi vicini come unica tappa. Finalmente il temporale sembrava averci raggiunto.
“Dormi chicco?” sussurrò una decina di minuti dopo aver spento le luci.
Non dormivo, ma non risposi ugualmente…